GIULIO TARRO

Scienza e bioetica alleate nella difesa dell’Uomo

Relazione al Convegno  “La vita offesa”

Milano, Casa di Reclusione di Opera ,1999, 30 settembre - 1 ottobre

   

Il ruolo oggi del medico, soprattutto quando egli si trova ad operare in realtà come il carcere, che vede la presenza di numerosi detenuti affetti da gravi patologie, quali l’AIDS, pone tutta una serie di interrogativi etici e deontologici di non facile risoluzione e che costituiscono uno dei principali filoni della Bioetica. Questa disciplina, uno dei più alti connubi tra pensiero filosofico e pensiero scientifico, si trova infatti quotidianamente ad affrontare dilemmi quali il consenso informato del paziente a determinate terapie, la possibilità di effettuare specifiche cura nell’ambito carcerario, l’opportunità o meno di controverse politiche finalizzate alla riduzione del danno prodotto dall’eroina… Questioni certamente difficili, per analizzare le quali è forse utile una rapida disamina dell’evoluzione del rapporto tra medico paziente che, fin dai tempi di Ippocrate è stato conflittuale. Mi sia consentito, a questo punto - rifacendomi a quanto riportato da uno dei più attenti studiosi della questione, Luca Carra - accennare brevemente a come si sia andato strutturandosi tale rapporto. Forse, ad una prima analisi, l’esposizione di questo percorso potrà apparire avulsa dalla realtà nella quale oggi il medico, soprattutto quello che interviene nelle carceri, si trova ad operare; ma se si avrà la pazienza di soffermarsi su alcuni punti ci si renderà conto che, nonostante i giganteschi progressi della Medicina, i dilemmi che legano il medico al paziente e alla società restano sempre gli stessi.

 

Come è noto, per quanto riguarda l’antichità classica, il primo documento scritto che attesta l'esistenza di una dimensione etica in medicina è il giuramento ippocratico, che ancora oggi fa parte della deontologia del medico. Le parti iniziali e finali del testo, con il riferimento agli dei e agli effetti del giuramento, rivelano la natura rituale e sacerdotale della professione medica nell'antica Grecia. I paragrafi che trattano gli obblighi verso il paziente e la sua famiglia sono invece quelli più interessanti per comprendere la natura della medicina delle origini e il suo rapporto con l'etica. Nel giuramento, come in altri testi ippocratici, la funzione della medicina è quella di fare del bene o quanto meno non nuocere all'ammalato (Primum non nocere), il quale non va necessariamente reso partecipe della natura delle terapie. Più in generale, la medicina appare per la prima volta come una scienza volta a restaurare il normale corso della natura, astenendosi dal ricorso a forze soprannaturali. Il medico dovrà, quindi, allearsi con l'ammalato per sconfiggere il terzo termine della relazione: la malattia. Ogni affermazione del giuramento rivela ciò che vi è di più intrinseco alla medicina come arte: il potere del ruolo del guaritore, il carattere paternalistico della relazione terapeutica, le circostanze tragiche in cui viene esercitata la cura. Da queste condizioni derivano le prerogative sociali e gli obblighi del medico nei confronti dei pazienti. Vulnerato nella sua salute, il malato non è in grado di godere di diritti di fronte a colui che cura. Per questo egli si deve affidare alla sua arte che si ammanta di poteri sacerdotali.

Prescrizioni etiche tornano più volte nel corso della storia della medicina in Occidente. Nei medioevali Mandata et praecepta ecclesiae le regole ippocratiche vengono intrise dal nuovo umanesimo cristiano, che ha portato alla ribalta i valori della carità e della vicinanza al sofferente, visto come immagine di Cristo. Nei precetti contenuti nel De instructione medici (Collectio Salernitana) si stabilisce che il medico dovrà valersi del sostegno del confessore, utilizzando le mezze verità e le esortazioni laddove queste possano migliorare lo stato dell'infirmus. La medicina diviene, quindi, principalmente esercizio di carità per la salvaguardia di un bene che non appartiene all'uomo, ma che a esso è stato donato da Dio. Ma se la vita è sacra, la sofferenza del malato non va considerata sempre negativamente, come un ostacolo da superare, poiché il dolore della carne può rivelarsi uno strumento di redenzione e di avvicinamento alla vera meta dell'uomo che non è la salute, bensì la salvezza. In alcuni autori della Patrologia latina alto medioevale, come Fulberto di Chartres, ci si imbatte nella contrapposizione tra la Schola Salvatoris e la Schola Hippocratis, con evidenti conseguenze sulla considerazione in cui per alcuni secoli è tenuta la medicina profana, volta all'illusorio tentativo di ristabilire con mezzi puramente naturali un ordine biologico in realtà soggetto alla grazia. E' solo a partire dal dodicesimo secolo che il pensiero cristiano rivaluta la medicina come dono di Dio e si profilano i primi tentativi di riformulare i precetti ippocratici in un contesto religioso.

In generale, le morali antiche e medioevali insistono con diversi accenti sul carattere paternalistico e benefico della medicina. Un classico esempio di cosa può significare un tipo di cura incardinata sulla beneficenza religiosa sono le parole di Sant'Antonio da Firenze (quindicesimo secolo), quando afferma: “Se un uomo malato rifiuta le medicine che gli vengono prescritte, il medico che è stato chiamato da lui o dai suoi parenti può curarlo contro la sua volontà, così come una persona deve essere trascinata fuori, contro la sua volontà, da una casa che sta crollando”. Fare il bene anche contro la volontà del paziente (principio di beneficenza assoluta) resta un caposaldo dell'etica medica fino a metà del secolo ventesimo. Nel suo Medical Ethics (1803) Sir Thomas Percival scrive che il medico, in qualità di ministro del malato “deve cercare di comportarsi in modo da fondere la tenerezza con la fermezza, e la condiscendenza con l'autorità, in modo da ispirare nei suoi pazienti la gratitudine, il rispetto e la fiducia”. Questa condiscendenza di tono paternalistico volta al benessere del malato, cioè di una persona che si trova in una oggettiva condizione di minorità fisica e psicologica, giustifica talvolta la mezza verità o la menzogna: “Quando un paziente, che forse è un padre di famiglia numerosa” scrive Percival “o la cui vita è di estrema importanza per la comunità, fa domande tali che, se il medico desse una risposta sincera potrebbe ricevere un colpo fatale, sarebbe un errore grave e impietoso dirgli la verità. Il suo diritto a una risposta sincera è dubbio, se non inesistente, poiché il naturale beneficio della rivelazione diventerebbe in questo caso un danno”.

Forme di paternalismo, ancorché attenuato dal principio generale di veridicità, si trovano nei documenti ufficiali delle società mediche di tutto il mondo fino agli anni settanta del ventesimo secolo. Un chiaro superamento di questa opinione si trova nei Principi di etica medica dell'American Medical Association del 1980, in cui si afferma: “La professione medica non si concepisce più come l'unica custode della salute pubblica, e di conseguenza il tradizionale paternalismo di questa professione entra in conflitto con la società”.

Sette anni dopo i dodici paesi della Comunità europea si adeguano all'esempio statunitense elaborando i Principi europei di etica medica, a cui tutti gli ordini medici degli Stati membri devono uniformarsi. Nel documento si legge, tra l'altro: “Salvo in casi d'urgenza, il medico deve informare il malato sugli effetti e possibili conseguenze della cura. Dovrà ottenere il consenso del paziente, soprattutto quando l'intervento presenti un serio pericolo. Il medico non può sostituire il concetto di qualità della vita del paziente con il suo personale”. Ai tradizionali concetti di giustizia e beneficenza si affianca il principio di autonomia, da cui deriva la necessità di ottenere dal malato il consenso libero e informato sulle terapie e le sperimentazioni cliniche.

A che cosa si deve questo mutato atteggiamento? Come può essere spiegata la proliferazione di dilemmi morali irrisolvibili a priori che concernono non solo l'attività strettamente clinica, ma anche l'assistenza sanitaria, la vita di relazione, le preferenze sessuali, la vita riproduttiva? E come far fronte a una problematizzazione così radicale della sfera biologica? Una delle risposte più convincenti è stata fornita dal filosofo statunitense Hugo Tristram Engelhardt, nel suo Foundation of bioethics (tradotto in italiano con il titolo di Manuale di bioetica), quando afferma il carattere politeistico, tecnologico ed economicistico della società contemporanea rispetto a quelle del passato.

Se è vero che tutte le società umane hanno conosciuto il fenomeno della dissidenza e del conflitto di opinioni, è altrettanto vero che solo nel ventesimo secolo il pluralismo di religioni, ideologie e tradizioni culturali ha trovato un riconoscimento politico forte in alcune costituzioni, vista anche l'impossibilità di fondare una morale comune a tutti su basi trascendenti o puramente razionali. In tutte le società democratiche, e a maggior ragione in quelle multirazziali, vi è una pluralità di comunità morali sorrette da regole diverse e spesso in opposizione tra loro.

In una società laica politeista fare del bene a un altro diventa una faccenda complicata e pericolosa, nel senso che l'atto benefico per chi lo fa può essere contestato o rigettato da chi lo riceve. Da qui la necessità, riconosciuta da tutti - anche se con forza e convinzione diverse - di far valere il principio di autonomia, il cui primo corollario è la richiesta del consenso informato al soggetto della terapia. Il diritto all'informazione e il rispetto della libertà del soggetto diventano tanto più urgenti alla luce delle violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo di cui in alcuni casi si è macchiata la ricerca clinica.

Tematiche come quelle sopra esposte trovano una particolare articolazione quando questo dibattito si proietta nell’universo carcerario.

Com’è noto l'attuale sistema penitenziario italiano si basa sulla legge n. 354 del 26 luglio 1975, cosiddetto Ordinamento Penitenziario, e sul D.P.R. n. 431 del 29 aprile 1976, Regolamento di esecuzione. Attraverso tali normative il nostro paese è riuscito, finalmente, a conformarsi al dettato costituzionale che, all'art. 27 comma 3°, prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L'ordinamento penitenziario italiano, in conformità al dettato costituzionale e in aderenza ai principi enunciati nella “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” proclamata dalla assemblea generale delle Nazioni Unite il 1° dicembre 1948 a New York, nella “Convenzione europea dei diritti dell'uomo” siglata in Roma il 4 novembre 1950, nel “Patto internazionale sui diritti civili e politici” approvato dall'assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 1966, ed in particolare nelle “Regole Minime dell'O.N.U. per il trattamento dei detenuti” adottate con risoluzione del 1° Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, in data 30 agosto 1955 e, per ultimo, nelle “Regole Minime del Consiglio d'Europa per il trattamento dei detenuti” adottate con risoluzione del Comitato del Consiglio dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 19 gennaio 1973, si articola e si sviluppa attraverso alcune importanti direttrici: l'espiazione della pena improntata ai criteri di umanità, salvaguardando la dignità e i diritti spettanti ad ogni persona; la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento sociale come scopo principale dell'espiazione della pena; la prevenzione della criminalità.

Con la legge n. 354 del 26 luglio 1975, indubbiamente molto attenta e ricettiva alle sperimentazioni e alle tematiche riguardanti le aree emarginate della nostra società, il detenuto diventa titolare - oltre che di doveri - anche di diritti. Questa legge - è bene ricordalo oggi di fronte ad un’opinione pubblica giustamente allarmata da innumerevoli episodi di micro e macrocriminalità e che in taluni casi richiede un ritorno alle norme carcerarie risalenti al 1931, se non, addirittura a quelle del 1891 e del 1862 - ha significato la pressoché totale scomparsa delle rivolte carcerarie, dei sequestri e degli omicidi in carcere fra detenuti; ha significato la possibilità di rendere operante quel principio sancito dalla Costituzione di vedere nel carcere non solo l’espiazione della pena ma anche una riabilitazione e un reinserimento del detenuto nella società civile. Ovviamente, secondo le migliori tradizioni italiane, alla legge non ha fatto seguito l’attivazione di tutte quelle strutture che avrebbero dovute realizzarla e, per quanto riguarda il campo medico, l’assistenza nelle carceri risulta ancora oggi insoddisfacente. Una situazione che risulta aggravata dalla persistente incidenza dell’AIDS tra i detenuti.

In una società come la nostra, nella quale la realtà viene valutata dallo spazio concessogli dai mass media, occuparsi di AIDS rischia di essere visto oggi come un inutile esercizio accademico. Infatti, dopo aver troneggiato per anni dalle prime pagine dei giornali e sugli schermi televisivi, e dopo aver seminato paure spropositate e comportamenti irrazionali, la "peste del due­mila", (così era stato irresponsabilmente battezzato l'AIDS) sem­brerebbe quasi scomparsa dalle attenzioni dei mass-media e, quin­di, dalle preoccupazioni della gente. Tra la "gente comune" di AIDS si parla, purtroppo, sempre di meno, quasi come se questo morbo fosse scomparso o sia destinato a restare confinato tra le categorie a rischio quali quelle degli omosessuali o degli eroinomani. E’ una situazione piena di pericoli soprattutto considerando che contro questa infezione, al di là di nuove combinazioni di farmaci, sicuramente più efficaci di quelli utilizzati nel passato, la strada per arrivare ad un vaccino o ad una cura risolutiva è ancora lunga e che, ancora oggi la fondamentale strada per limitare il contagio è data dalla prevenzione e quindi dalla informazione. E tutto questo mentre - come nella favola di Pierino e il lupo - risulta sempre più difficile sensibilizzare un'opinione pubblica che, negli anni passati, ha subito una mar­tellante e terroristica campagna sulla minaccia AIDS.

Ma vediamo qual è stato finora l'andamento dell'epidemia nel nostro Paese.

In Italia, la curva dei casi di AIDS iniziò ad impennarsi nel 1984, e si comprese immediatamente come l'epidemia si fosse rapidamente diffusa nei tossicodipendenti, soprattutto nelle aree urbane del Centro-Nord. La disponibilità del test sierologico HIV rese possibile, nel 1985, effettuare indagini che evidenziarono ampie variazioni geografiche: a Milano, ad esempio, oltre il 50% dei tossicodipendenti risultava infetto, a Napoli meno del 10%. All'inizio degli anni '90, nel nostro Paese l'AIDS era diventata la prima causa di morte fra i giovani adulti di sesso maschile e la seconda fra le donne della stessa età (25-34 anni).

L'andamento del numero dei casi di AIDS segnalati al Registro Nazionale AIDS (R.N.AIDS), ha confermato il costante incremento dell'incidenza dei casi di AIDS notificati nel nostro Paese sino al 1995, e ha permesso di stimare un lieve decremento per il 1996. Nell'ultimo anno, il numero dei casi di AIDS, è quindi leggermente diminuito, stabilizzandosi su circa 1200 nuovi casi a trimestre. Tende invece ad aumentare costantemente il numero dei pazienti affetti da AIDS viventi. Se quest’ultimo trend può spiegarsi con il miglioramento consentito dai farmaci di mantenimento, più problematico è definire cosa possa avere determinato il rallentamento dell'epidemia.

Sono state formulate a tal riguardo varie ipotesi: che questo decremento sia dovuto effettivamente alla diminuita incidenza di nuove infezioni verificatesi nella seconda metà degli anni '80, che l'infezione creatasi era inferiore a quella stimata, che sia in aumento la sotto notifica dei casi di AIDS.

Se si osserva più da vicino l'andamento dell'epidemia, si constata che il numero di nuove infezioni è andato rapidamente aumentando nella prima metà degli anni '80, raggiungendo un picco intorno al 1985-87, per poi diminuire e stabilizzarsi ad un livello decisamente più basso negli anni 1991-93. Se si scorporano poi i dati relativi alla tossicodipendenza e quelli relativi ai contatti eterosessuali, si osserva che se per i tossicodipendenti la curva ricalca quella della popolazione in generale, risulta invece evidente un lento e continuo aumento delle nuove infezioni dovute a contatto eterosessuale. Sia le indagini gli studi osservazionali che i calcoli matematici confermano quindi che le stime effettuate nella seconda metà degli anni '80 erano sicuramente sovrastimate. La domanda che oggi gli esperti si pongono è quindi se, veramente, l'AIDS non sia più un problema emergente e non rappresenti più un problema grave in Italia.

Certamente l'AIDS è stata, e tuttora rappresenta, un'importante causa di mortalità tra i giovani adulti nel nostro Paese e sicuramente la guardia non va abbassata; bisogna, comunque, evitare gli errori del passato quando il fenomeno veniva molto sovrastimato creando inutili allarmismi, allo stesso tempo, però, oggi non bisogna incorrere nell'eccesso opposto e passare cioè ad un eccessivo ottimismo anche perché nel nostro Paese il principale "focolaio dell'infezione" è costituito da tossicodipendenti.

Com'è noto, nella sua prima fase, il virus dell'AIDS è stato veicolato sostanzialmente da omosessuali maschi principalmente attraverso le lesioni che generalmente si producono (sul pene o nell'intestino retto) in un rapporto anale. Successivamente l'infezione ha finito per privilegiare gli eroinomani poiché molti di essi "socializzano" il "buco" e cioè utilizzano la stessa siringa per iniettarsi l'eroina garantendo così, se è infetta la prima persona che ha utilizzato la siringa, la trasmissione dell'infezione. Per di più non pochi tossicodipendenti, per procurarsi la quotidiana dose, si prostituiscono, spesso senza preservativo, garantendo così l'ulteriore diffusione del virus.

A partire dalla seconda metà degli anni "80, la minaccia rappresentata dall'AIDS ha determinato lo strutturarsi di capillari campagne di informazione e di educazione che sconsigliavano rapporti sessuali con partner sconosciuti e/o sull'opportunità di utilizzare il preservativo mentre agli eroinomani veniva consigliato, quanto meno, di non scambiarsi la siringa. Varie inchieste e sondaggi hanno dimostrato comunque che queste campagne hanno prodotto significative modifiche dei comportamenti solo negli omosessuali, qualche piccola modifica é stata registrata nei costumi di vita degli eterosessuali (come dimostrato, tra l'altro dalla sostanziale "tenuta" delle altre malattie a trasmissione sessuale) mentre i comportamenti a rischio da parte di soggetti eroinomani sono rimasti sostanzialmente inalterati. Ancora più irrilevanti sono gli effetti delle campagne di informazione tra eroinomani affetti da sieropositività; basti pensare che un terzo di questi non avrebbe neanche informato il partner sulla possibilità del contagio. Questo sostanziale disinteressamento per le norme di prevenzione ha avuto una sconsolante conferma nell'effettuazione dei test di sieropositività.

Nonostante questo test sia in Italia assolutamente anonimo e gratuito, si stima che meno di un quinto degli eroinomani abituali vi abbia fatto ricorso. Molto probabilmente il perché di ciò é da ricercarsi sostanzialmente nella rappresentazione della sieropositività come inevitabile anticamera di un'imminente morte, fatta propria da non pochi mass-media, e che ha spinto e continua a spingere gli eroinomani infetti a disinteressarsi del loro stato di salute e dei rischi insiti nel perseverare nei loro comportamenti.

Oltre che all’AIDS, l'epatite rappresenta una delle principali cause di morbosità tra gli eroinomani. Anche per l'HAV sono stati osservati casi di infezione associati alla tossicodipendenza. Dato il breve periodo di viremia (pur non potendosi escludere completamente la trasmissione parenterale), rimane da spiegare la modalità di trasmissione dell'agente patogeno ed a questo proposito sono state avanzate alcune ipotesi quali l'alta incidenza correlata non alla tossicodipendenza in sé, ma alla scarsa igiene ad essa associata; la contaminazione delle sostanze di abuso durante la loro produzione, trasporto e preparazione; la contaminazione degli strumenti di preparazione della dose di eroina.

Ben più frequente è, comunque, l'infezione da HBV e HDV che sono da considerarsi endemiche nella popolazione dei tossicodipendenti. Anche l'HCV è ampiamente diffuso in questa categoria, facendo registrare tassi di positività dal 60 al 90%, contro una sieroprevalenza nelle popolazioni occidentali stimata fra 0,1 e 1,7%. E’ da sottolineare che l'epatite C si presenta, spesso, in forma pauciasintomatica ed è nota la tendenza ad evolvere in epatite cronica (50%), in cirrosi epatica (20%) ed in epatocarcinoma (il 5% dei cirrotici C-correlati sviluppa ogni anno epatocarcinoma); è da ricordare, inoltre, che gli anticorpi anti HCV non hanno effetto protettivo.

Tra il 1975 e il 1985 si è verificata in Italia la fase più virulenta dell'epidemia di epatite virale tra eroinomani, con una larghissima circolazione sia del virus B, sia del virus NANB (Non A Non B), sia del virus D. In alcuni gruppi di tossicodipendenti attivi in quel periodo, sono state rilevate percentuali di positività per gli indici sierologici per l'HBV anche superiori al 90% mentre attualmente si osserva un trend discendente dell'incidenza delle infezioni da HBV.

Come già detto, la situazione epidemiologica dell'AIDS, in Italia, presenta caratteristiche peculiari per il preminente interessamento dei tossicodipendenti; essi infatti, rappresentano il 67,2% dei casi di AIDS in soggetti adulti. La peculiarità del fenomeno risulta evidente dal confronto con i dati degli altri paesi europei (ad eccezione della Spagna e della Francia meridionale), nei quali, al contrario, il massimo impatto dell'epidemia si verifica in omosessuali o bisessuali maschi.

Il precoce ed esteso coinvolgimento dei tossicodipendenti (soggetti giovani, in età sessualmente attiva, presenti nel nostro paese in tutte le fasce sociali) e ancor più degli ex-tossicodipendenti, spesso del tutto socialmente reinseriti, rappresenta un potenziale rischio aggiuntivo di diffusione attraverso rapporti eterosessuali nella popolazione aperta e di trasmissione materno - fetale. Infatti, l'Italia si caratterizza, rispetto agli altri paesi europei, per l'elevato numero di casi di AIDS pediatrici (prevalentemente nati da madri sieropositive) e per la percentuale di casi di malattia contratta attraverso rapporti eterosessuali .

Studi su sieri congelati hanno consentito di ricostruire retrospettivamente la storia dell'epidemia da HIV in diverse popolazioni di tossicodipendenti italiani cominciata nel 1981 nell'area metropolitana di Milano e, uno o due anni dopo, impiantatasi saldamente a Roma, Genova e Torino. Le informazioni raccolte dal Ministero della Sanità, nel 1990, relative a tossicodipendenti in trattamento presso i servizi di assistenza, hanno evidenziato una prevalenza media della positività all'HIV del 30,8%, con ampie variazioni regionali. Infatti, la prevalenza di infezione superava il 60% nella Provincia autonoma di Bolzano, mentre in Campania era del 5,8%

Se si distinguono i soggetti in trattamento presso i servizi tra "vecchi utenti" e "nuovi utenti", cioè tra coloro che hanno iniziato il trattamento in un anno precedente a quello della rilevazione e quelli che si sono avvicinati ai servizi per la prima volta nel corso del 1990, si nota che la proporzione di infetti è inferiore fra i nuovi utenti. Per spiegare questo risultato si deve tener conto che l'età media dei nuovi utenti è più bassa di quella dei soggetti in trattamento da un maggior numero di anni. I più giovani hanno una storia di droga più breve e di conseguenza una minore durata dell'esposizione all'HIV. Inoltre, chi ha iniziato l'uso endovenoso di droga a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, ha sicuramente avuto a disposizione una maggiore informazione sul rischio di infezione da HIV. Bisogna, d'altra parte, tenere presente che i dati, riguardanti i tossicodipendenti afferenti ai servizi, possono non essere rappresentativi della popolazione globale; in particolare, i comportamenti legati all'uso di droga nei tossicodipendenti non in trattamento, potrebbero differire rispetto a quelli dei soggetti in carico ai servizi.

Considerando le stime del numero di eroinomani e una prevalenza media del 30%, in Italia il numero di tossicodipendenti sieropositivi potrebbe aggirarsi intorno ai 50.000 - 70.000; inoltre, poiché i casi di AIDS oggi notificati si riferiscono ad un contagio che si è verificato molti anni addietro, si può facilmente immaginare quale sarà l'impatto futuro dell'epidemia. Per di più, dal momento che i tossicodipendenti sono mediamente giovani e, quindi, con un tempo di incubazione mediano più lungo, l'epidemia di AIDS in questa categoria di popolazione tenderà ad allungarsi nel tempo.

Di particolare gravità appare il problema AIDS nelle carceri, data la costante crescita dei tossicodipendenti presenti, specie dopo l'approvazione della Legge 162/90. Inoltre in carcere esistono diverse condizioni favorenti la propagazione dell'infezione, quali l'uso di siringhe in comune (per la scarsa disponibilità) e la diffusione delle pratiche omosessuali. La percentuale dei detenuti tossicodipendenti è passata, infatti, dal 17,3% del 1986 al 29% del 1990 fino al 32% nel 1991 e si avvicina al 40% nelle regioni in cui il fenomeno della tossicodipendenza è più grave, come la Liguria, il Lazio e la Lombardia. Inoltre un'indagine su 374 detenuti di Regina Coeli nel 1991 ha rilevato un tasso di positività per HIV pari al 39,5%, mentre la ricerca della sierologia per i virus epatitici ha verificato una positività per almeno un marker per HBV pari al 45,4% e pari al 47,0% per HCV.

Il carcere è oggi la fotografia fedele dei nodi cruciali della nostra epoca: la povertà del sud del mondo che si accalca alle porte di quello del benessere vero o presunto ma soprattutto la tossicodipendenza e la diffusione del virus dell’AIDS. La drammaticità dell’AIDS, pone tutta una serie di dilemmi legati alla specificità della “cura” per contrastare questa malattia infezione e alle modalità per ridurre l’estendersi dell’epidemia.

Com’è noto, nonostante colossali investimenti e un dispendio di energie scientifiche e finanziarie che non ha precedenti, ancora non c’è un vaccino per prevenire l’AIDS ne’ un farmaco capace di guarirlo. Per ora, per rallentare il decorso dell’AIDS vi è la disponibilità di una categoria di farmaci, gli inibitori delle proteasi che vengono ad aggiungersi agli inibitori della transcriptasi inversa, ad esempio l'AZT. Gli inibitori delle proteasi intervengono anch'essi nella fase di moltiplicazione virale, inibendo alcuni enzimi che sono fondamentali per comporre e ricomporre il virus nelle sue replicazioni; questi farmaci danno maggiori risultati quando vengono associati agli inibitori della transcriptasi inversa, ecco che allora si parla di terapia tri o quadri combinata, cioè con 3 o 4 farmaci ai quali si possono aggiungere nuovi composti come il 3 Tc.

Uno dei vantaggi nell'usare più farmaci insieme è che vengono ridotti gli effetti collaterali di ciascuna sostanza. Sono prodotti comunque molto delicati che devono essere assunti sotto prescrizione e sorveglianza sanitaria; questo perché possono essere incompatibili con altri farmaci come alcuni antibiotici che vengono invece usati per le patologie correlate all'AIDS, cioè quelle che si sovrappongono all'infezione da HIV. Inoltre questi farmaci sono utilizzati da relativamente poco tempo; quindi non se ne conoscono ancora bene le conseguenze sui tempi medio-lunghi, sia per quanto riguarda gli effetti collaterali sia in relazione al possibile svilupparsi di resistenze virali attraverso meccanismi di modificazione del virus capaci di renderlo insensibile a queste sostanze.

Uno dei problemi che si pone oggi per le persone con infezione da HIV in fase avanzata è che si trovano in questo momento a dover assumere 10, 15 pastiglie al giorno: un inibitore delle proteasi, due antiretrovirali inibitori della transcriptasi inversa (ciascuno di questi farmaci può comportare più assunzioni giornaliere), ai quali si sommano spesso i farmaci per le patologie correlate. Questa situazione incide negativamente sulla qualità della vita della persona. In alcuni casi la somministrazione di questi farmaci non è limitata solo a chi è nella fase estremamente avanzata della malattia, cioè chi ha meno di 50 linfociti T4 ma vengono prescritti anche a pazienti caratterizzati da una situazione intermedia dell'infezione da HIV.

 Di particolare interesse per la sua ricaduta nel settore carcerario è che ormai si sa con precisione che non possiamo più basarci unicamente sulla conta dei linfociti T4 per poter esprimere un valore predittivo e prognostico relativamente all'evoluzione della malattia. Il numero dei linfociti T4 mantiene un suo significato, al quale va aggiunta un'analisi dei linfociti T8; per ambedue le famiglie di linfociti non si tratta di analizzare semplicemente il numero assoluto ma anche la velocità del trend di discesa. Inoltre vanno analizzati altri indicatori come ad esempio la presenza o meno dell'antigene P24 e la “forza” della carica virale presente. Questo a un nuovo esame, realizzabile per il momento in pochi ospedali in Italia, che individua la quantità di virus presente, attivo e la velocità di replicazione del virus stesso. Queste e altre metodologie per la dichiarazione dello stato conclamato di AIDS finiscono per scaricare sul medico problemi che sono sociali e politici e sui quali credo valga la pena di soffermarsi.

Come è noto la legge 222/93 escludeva dal trattamento carcerario gli ammalati conclamati di AIDS. In seguito, anche al forte allarme sociale suscitato da alcuni casi di persone sieropositive scarcerate con la legge 222 che tornavano a commettere reati (ad esempio, la cosiddetta “ “Banda dell'AIDS” di Torino) la Corte Costituzionale tornava sul proprio indirizzo giurisprudenziale con due sentenze (n. 438 e 439 del 1995) che stabilivano l'illegittimità della legge 222 nella parte in cui non consente al giudice di accertare in concreto in che misura “le effettive condizioni di salute del condannato siano o meno compatibili con lo stato detentivo”. In sintesi la Corte riteneva che il rigido automatismo che la legge 222 aveva posto tra livello di linfociti e scarcerazione fosse illegittimo, in quanto l'incompatibilità tra malattia e detenzione e la pericolosità del detenuto per la salute dell'ambiente penitenziario dovevano essere valutate volta per volta dal magistrato anche in considerazione delle effettive condizioni di salute del detenuto e della capacità delle strutture del singolo istituto carcerario di poter far sì che “l'esecuzione della pena possa avvenire senza pregiudizio per la salute della restante popolazione carceraria”. Tale motivazione, tuttavia, provocava ulteriori critiche da parte della dottrina: secondo alcuni la sentenza della corte stravolgeva in una logica di mero allontanamento dall'istituzione carceraria dei detenuti infettivi, la finalità originaria della legge 222 che era quella di umanizzare l'esecuzione della pena; altri, partendo dalla centralità che la Corte sembrava assegnare all'aspetto infettivo della patologia AIDS, ponevano l'accento sull'impossibilità di motivare razionalmente il trattamento differenziato di due categorie di soggetti (quelli in AIDS conclamato automaticamente scarcerabili e quelli semplicemente sieropositivi scarcerabili a discrezionalità del magistrato) entrambe egualmente contagiose. Recentemente la “Legge Corleone”, appena varata dal Parlamento, ribadendo sostanzialmente l’incompatibilità tra AIDS conclamato e carcere, ripropone l’impostazione della legge 222 ma crediamo che anche questa legge rischi di essere sostanzialmente disattesa e/o abrogata al verificarsi di una qualche nuovo clamoroso caso di tossicodipendenti affetti da AIDS che, certi dell’impunità, riproporranno gli stessi misfatti della “Banda dell’AIDS” di Torino.

 La, certamente insoddisfacente, “terapia” dell’AIDS e il conflitto, a prima vista irrisolvibile, tra AIDS e detenzione sollecitano almeno due riflessioni che credo debbano investire il mondo medico: la prima è la liceità di terapie alternative a quelle ufficiali per curare l’AIDS, la seconda riguarda una articolazione diversa della lotta all’eroina.

Gli ultimi anni hanno visto il nascere di gruppi e di comunità di persone sieropositive che cercano di proporre, anche all’interno di strutture quali quelle carcerarie, terapie alternative (basate, soprattutto, sull’omeopatia e sulla medicina tradizionale cinese)  per sconfiggere l’AIDS. Si tratta spesso di comunità formate da persone sieropositive motivate dalla giusta esigenza di essere considerate soggetti attivi e non solo oggetti di una terapia e che si trovano ad operare in una situazione di forte frammentazione, spesso aggravata dalla discriminazione e stigmatizzazione di cui sono ancora oggetto. Il percorso che ha portato gli aderenti a questi gruppi a questa scelta non è omogeneo. In alcuni casi si tratta di persone che comunque e indipendentemente dalla sieropositività fanno uso di medicine quali l'omeopatia, l'agopuntura, la fitoterapia ecc. ed hanno ritenuto di proseguire su questa strada; in altri casi sono persone che davanti alla necessità di intraprendere una cura, preferiscono prima sondare strade terapeutiche meno invasive e potenzialmente iatrogene; oppure che, dopo lunghe terapie antiretrovirali (AZT), di fronte all'interruzione delle stesse, a causa del venire meno dell'efficacia, per l'intervento di tossicità o per la selezione di ceppi virali resistenti, ricercano altri prodotti; in altri casi, infine, si tratta di persone che non possono rientrare nei protocolli di trattamento con AZT o altro a causa della non reggibilità della terapia o che, nella condizione terapeutica di assumere farmaci in alti dosaggi, tenta quantomeno di contenerne gli effetti collaterali.

La presenza di questi interlocutori pone al medico inserito all’interno di una struttura pubblica, soprattutto se si tratta di quella carceraria, numerosi problemi in primo luogo per la ridotta conoscenza e circolarità delle conoscenze inerenti alle terapie alternative. Non esistono infatti soddisfacenti follow-up e casistiche che permettano di valutare compiutamente l’efficacia di queste proposte terapeutiche “alternative”, caratterizzate, quasi sempre, da una sostanziale mancanza di “ufficialità” e di contesti di riconoscimento; una circostanza questa che permette e favorisce la convivenza di proposte terapeutiche che pure sembrerebbe abbiano fatto registrare alcuni successi valide con "rimedi" di ciarlatani.

Non bisogna, comunque, avere preclusioni su alcuna forma di terapia che rispetti l'uomo e la sua salute, che ponga quale priorità la massima di Ippocrate che, in prima istanza, le medicine non devono nuocere. Bisogna fare in modo che le sovrastrutture ideologiche e il conformismo che spesso accompagnano la professione medica non debbano contrarre il diritto alla scelta terapeutica del cittadino. Forme di intolleranza e di dissuasione autoritaria nei confronti dei pazienti non sono tollerabili da parte di chi ha, oggettivamente, nei confronti del paziente una posizione di privilegio intellettuale, medico e di risorse dialettiche. Più in generale la supremazia culturale non può essere strumento di contrazione delle libertà individuali, la posizione sociale non può essere usata per influenzare e/o determinare le scelte delle persone relativamente alla salute, che è un bene comune e inalienabile della persona. A tale proposito, ritengo debba essere un preciso dovere del medico garantire la più ampia conoscenza su tutte le terapie finora approntate per sconfiggere l’AIDS quando queste abbiano fatto registrare una qualche esperienza positiva e siano caratterizzate dall’assenza di provata tossicità.

La seconda questione d’ordine bioetico, prima che ancora politico e sociale, riguarda la strada più opportuna per sconfiggere la oramai endemica diffusione dell’eroina che, come è noto è la causa, più o meno diretta, della detenzione della maggior parte dei detenuti, italiani e stranieri.

Spesso sulla tossicodipendenza si sono create contrapposizioni politico-ideologiche che hanno finito col bloccare qualsiasi dibattito sulla modalità di intervento; per quel che riguarda la prevenzione dell'AIDS tra i tossicodipendenti e ripercussioni sulla politica di prevenzione si sono avute anche a livello istituzionale quando nel 1989 un documento della Comunità europea che prevedeva programmi mirati di distribuzione di siringhe sterili ai tossicodipendenti non è stato sottoscritto dal rappresentante del governo italiano.

Semplificando al massimo, si può affermare che esiste un inconciliabile antagonismo che divide in due schiere coloro che si occupano di tossicodipendenze. I cosiddetti "pragmatici" e i cosiddetti "sostenitori di valori assoluti". Per questi ultimi, la posizione può essere espressa dallo slogan "la lotta all'AIDS si fa dichiarando guerra alla droga", apparentemente innocuo e condivisibile da tutti. Esso sottintende infatti che per prevenire la diffusione dell'AIDS è necessario ingaggiare una guerra al fine di sconfiggere il consumo di droghe illegali. Ciò è nettamente in contrasto con l'approccio cosiddetto pragmatico, in voga in alcuni paesi nordeuropei, che privilegia la filosofia della riduzione del rischio: una siringa pulita in cambio di una sporca, metadone (o, addirittura, eroina pura) in luogo di eroina da strada... e che si pone come obiettivo prioritario quello di prevenire un'infezione letale, a prescindere da pregiudizi o condanne moralistiche, e di favorire un avvicinamento del tossicodipendente alle strutture sanitarie che possono così aiutarlo ad uscire dal suo calvario.

Secondo un documento redatto da una commissione della Comunità Europea due sono le premesse fondamentali per iniziare questo avvicinamento e sviluppare campagne informative rivolte ai tossicodipendenti. La prima è che devono essere rigidamente distinti i messaggi finalizzati a limitare la diffusione della sieropositività dalle campagne contro la diffusione dell'eroina. In tal modo risulta più facile evitare possibili reazioni di fuga o di rifiuto da parte dei tossicodipendenti con i quali si cerca di entrare in contatto. La seconda è che si deve intervenire direttamente sulle vie di trasmissione fornendo strumenti concreti di profilassi. Più in generale, secondo la Commissione è fondamentale attivare strategie di prevenzione che sappiano convivere con la tossicodipendenza laddove tale realtà non sia in tempi brevi modificabile, evitando quindi la trasmissione del virus HIV. Tale obiettivo presuppone la necessità di operare e interagire con persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti che non mostrano, almeno per il momento, intenzione di uscire dalla dipendenza; il cosiddetto programma di prevenzione mirata alla "riduzione del rischio" (il cosiddetto “risk minimization” secondo gli autori anglosassoni).

Non abbiamo qui la pretesa di dire una parola definitiva sull'opportunità di queste campagne di intervento che, attraverso l'informazione sul cosiddetto "buco pulito", se da una parte possono consentire di ottenere una riduzione della morbilità e mortalità per patologie infettive legate all'uso dell'eroina, dall'altra, secondo numerosi osservatori, rischiano di "legittimare" l'assunzione di eroina, un comportamento questo che non può essere certo affidato alla "libera scelta" del consumatore. Quello che ci preme, comunque sottolineare è che l'impegno del medico in queste campagne informative pone ad esso drammatici problemi di ordine etico che mettono in discussione lo stesso Giuramento di Ippocrate.

Nonostante ciò, in molti paesi europei, svanite le speranze di risolvere il problema droga cercando di convincere il tossicodipendente a smettere l'assunzione di eroina e rivelatesi fallimentari a livello mondiale le pur colossali iniziative repressive e giudiziarie, molti medici e personale paramedico stanno fattivamente collaborando a questo tipo di iniziative confortate anche dal parere espresso nel 1988 dall'autorevole Advisory Council on the Abuse of Drugs del governo britannico: "Non abbiamo alcuna esitazione a concludere che la diffusione dell'HIV costituisce per la salute individuale e collettiva un pericolo maggiore di quello dell'abuso di droga".

 Parallalelamente a ciò, sulla scia delle esperienze statali intraprese in Gran Bretagna e in Svizzera, nel mondo medico si va strutturando un acceso dibattito sull'opportunità di somministrazione controllata di eroina agli eroinomani che si sono dimostrati restii ad ogni trattamento di disintossicazione. È questa un'iniziativa che merita un attento e approfondito dibattito ma che rischia di far passare in un immeritato secondo piano un'altra iniziativa - la somministrazione di metadone - che pure ha avuto un ruolo non indifferente nel contenimento delle infezioni virali tra i tossicodipendenti. Studi condotti negli Stati Uniti dimostrano, infatti, che il tasso di prevalenza di HIV era inferiore in soggetti che avevano iniziato un programma di mantenimento con metadone prima del 1983. La stessa situazione della regione Campania, che vede una quota relativamente ridotta di tossicodipendenti affetti da virus HIV - verosimilmente a seguito della somministrazione di metadone che in questa regione negli anni passati è stata più elevata rispetto al resto del Paese - dovrebbe far riflettere.

Di certo il problema droga, alimentato da un inquietante senso di autodistruttività che sembra sorgere dal mondo giovanile e cementato da interessi potenti e ramificati risulta difficilmente risolvibile a breve scadenza. E la tragedia della droga negli ultimi decenni, nonostante l'impegno, spesso eroico, di operatori sanitari, forze dell'ordine, giudici, operatori carcerari... ha conosciuto una spaventosa escalation della quale i ragazzi morti per overdose in carcere, per strada o per AIDS in qualche ospedale sono soltanto la punta di un iceberg. E al di là del contributo che può dare la Medicina, la soluzione di questo problema risulta essere enormemente complicato ponendo in discussione profondi principi etici, come nel caso di campagne informative rivolte a coloro che persevereranno nella tossicodipendenza. Di certo quello che non possiamo fare è illuderci che il dramma della droga possa essere esorcizzato con anatemi o appellandoci a guerre sante che sono state già combattute e perse.