GIULIO TARRO

Ricerca scientifica: dove siamo, dove andiamo?

 

Sulle macerie delle ideologie, oggi si celebrano i “successi” della scienza. E le recenti scoperte nel campo della genetica, ed anche della fisica, sembrano accelerare questo fenomeno. Ma la scienza in questa dimensione di successo, cioè senza più confini, verso quale direzione ci condurrà? Essa impersonificherà il mito della fenice che sceglie il suo nido nel fuoco che la distrugge, oppure favorirà un autentico progresso per l’umanità? E’ in questo interrogativo che si racchiude in tutta la sua potenza, l’esperienza più preoccupante del pensiero contemporaneo.

Il grande cambiamento che stiamo verificando nel mondo moderno parla di scienza e di tecnologia. Questo pone problemi di ogni genere, fra i quali quello dei rischi e dei benefici del progresso tecnologico. Problema che travalica i temi strettamente legati agli effetti indesiderati di una scoperta o di una tecnologia – si pensi alla catastrofe che potrebbe rappresentare l’incontrollata proliferazione di un microrganismo “inventato” con la bioingegneria - ma va oltre questi aspetti che definiremmo ovvii, ed entra nel quadro denominabile come “etico”.

 Osservando, leggendo, ascoltando, chi vive per professione e scelta culturale la scienza come importante ed indispensabile chiave di lettura della vita ha la sensazione di una gigantesca confusione delle lingue, nella quale si afferma tutto ed il contrario di tutto, con il risultato di non avere mai nulla di conclusivo, ma semmai uno stato di permanente polemica. Polemica destinata ad aumentare man mano che lo sviluppo di nuove acquisizioni scientifiche, soprattutto nel settore biologico (genetico in primis), apriranno nuovi orizzonti e nuove possibilità. Può valer la pena di entrare nel merito, con lo scopo, non facilmente raggiungibile, di fare un minimo di chiarezza sui fattori che sono alla base di questo stato di cose.

Innanzitutto, dobbiamo riferirci alla conoscenza, che costituisce la base della tecnologia. Il desiderio di capire, di conoscere, di allargare la propria visione, è uno, se non l’unico, dei valori assoluti dell’uomo. I valori religiosi, familiari, le regole morali, il concetto di proprietà variano nel tempo e nello spazio, ma in tutti i tempi ed in tutti i luoghi l’uomo ha cercato e cerca di conoscere di più. Non solo, ma la conoscenza viene spesso perseguita come ribellione e pericolo dal potente, che si tratti di religione (il peccato originale, Galileo) o che si tratti del pericolo che chi difende lo status quo percepisce nella attività di chi cerca di innovare (Prometeo, Anassagora). Dalla conoscenza deriva la tecnologia, che produce nuovi strumenti, che cambiano le possibilità dell’uomo, e trasformano profondamente il suo modo di vivere. 

Le applicazioni della conoscenza, proprio in quanto visibili, attuali, concrete, vengono percepite come un qualcosa che può inquietare, situate come sono in un comparto della percezione umana che ne apprezza i vantaggi, ma ne teme le possibili ripercussioni negative. Tant’è che viene evocato in continuo il tema dell’ “apprendista stregone”. E qui scatta il meccanismo, destinato al più totale insuccesso, nell’approccio attuale, delle valutazioni etiche. Etica significa valori, scelte, valutazioni, e scelta, valore, valutazione significa parametri di riferimento. Perché le commissioni di etica, in genere di bioetica, emanano concetti e risoluzioni contrastanti? Credo che alla base di tutto vi sia la difficoltà, se non la impossibilità, di fissare dei parametri, di stabilire dei punti fermi nei valori che si vogliono difendere.

Faccio un esempio banale ma significativo. Sopratutto nei paesi occidentali grazie a tutta una serie di conquiste scientifiche e culturali si sta avendo un generale e clamoroso aumento della durata media della vita umana. E così, mentre i paesi del Terzo Mondo continuano ad avere pochi vecchi e molti bambini quelli industrializzati registrano la situazione opposta. Ecco un bel problema per le commissioni di bioetica: è più etica la distribuzione delle età del terzo mondo, che rispecchia quella delle prime decine di migliaia di anni della specie umana, o quella dell’Italia (o della Francia, o degli USA) di oggi, che si è formata negli ultimi decenni? È etico l’invecchiamento della popolazione industrializzata? E se non lo è che facciamo, smettiamo di curare i vecchi, stacchiamo le spine? Problemi certo aspri, complicati robustamente dal fatto che, rispetto alle problematiche che riguardano la vita e la morte, l’uomo è fortemente condizionato dalla sua evoluzione culturale. Nelle migliaia di anni che ci hanno preceduto, fra i fattori primari di sopravvivenza vi è stata la tendenza a sopravvivere, quella che viene normalmente chiamata “istinto di sopravvivenza”. Che si è andata consolidando nell’uomo ed è in ovvio contrasto con l’autocoscienza e la coscienza della certezza della morte. Se voglio sopravvivere, perché questa sorta di comandamento interno mi proviene da tutta una evoluzione culturale, e so di dover morire, provo certamente una angoscia esistenziale, e certo non mi trovo nelle migliori condizioni per affrontare, libero da condizionamenti, temi come eutanasia, suicidio, accanimento terapeutico. Siamo sicuri di essere interiormente liberi quando ci poniamo il problema dell’eutanasia? Penso proprio di no, prova ne sia che cerchiamo di programmare ogni atto della nostra vita, anche il più futile come due settimane di vacanze, e non cerchiamo di programmare (nei limiti del possibile e delle singole situazioni) la morte individuale, che con la nascita costituisce uno dei due momenti realmente importanti dell’esistenza.

In sede di applicazioni, appartengo alla cultura mediterranea e cristiana, e questo, sopratutto in quanto medico,  mi spinge a cercare ciò che porta ad un alleviamento delle difficoltà e delle sofferenze dell’uomo in questo mondo e in questa sua vita terrena. Vedo con sconcerto l’affermarsi di un certo materialismo, di origine soprattutto anglosassone, centrato sul mercato, sulla globalizzazione. E a tal riguardo trovo davvero singolare che ci si preoccupi della biodiversità e non di questo processo di omologazione generale basato sui mass media, televisione in primis: abbiamo nel mercato una sorta di “pensiero unico”, il modello di sviluppo che si va affermando è unitario, centrato sulla disperata ricerca del benessere, condita da un mondo dell’informazione che diffonde spettacoli e sport a guisa di un moderno e globale “panem et circenses”.

Questo concetto della “Scienza come generatrice di mostri”, un “mostro” indigesto per la cultura, è di antica data, risalendo alla nascita del metodo scientifico. Fin dai tempi di Galileo, infatti, l’impatto della scienza con la cultura e soprattutto con la religione cominciò ad essere conflittuale. Perché la scienza si presentava come portatrice di verità assolute e, come tali, irrevocabili. Galileo era consapevole che il metodo scientifico da lui praticato studiava sistemi idealizzati nei quali le relazioni spaziali così come quelle temporali erano del tutto irrilevanti. La meccanica, infatti, è la descrizione di un mondo senza attrito, avulso da reali condizioni fisiche. Ciononostante egli riteneva che la scienza avesse la capacità di conoscere la realtà in modo qualitativamente così approfondito da eguagliare la conoscenza divina. Dati i presupposti, il conflitto tra le due verità, quella scientifica e quella religiosa, era inevitabile.

Oggi la scienza non pretende più di descrivere verità assolute. Piuttosto si muove in una prospettiva fallibilista: formula leggi che sono vere in relazione ad un modello che esprime in modo non esaustivo ma semplificato il mondo reale. Così la tensione verso la verità assoluta si è modificata nella tensione verso il rigore interno mediante il quale debbono essere espresse le sue leggi. Questo sforzo per realizzare una coerenza interna, un controllo dei propri asserti è stato particolarmente sentito nell’ambito della matematica nella quale, così come risulta dalla formulazione che ne ha dato Hilbert, la superiorità della scienza rispetto ad altri campi culturali consiste nel controllo della qualità dell’informazione, nella giustificazione logica delle sue proposizioni in quanto legate sintatticamente ad altre che hanno uno statuto privilegiato (assiomi).

In questo modo l’etica diviene un fatto interno alla scienza. E però anche questo mirabile edificio logico sintattico è stato minato dai teoremi di Gödel che hanno privato di fondamenti il problema della decisione (cioè il problema di stabilire in un numero finito di passi e, sulla base di determinate premesse, se una proposizione matematica è vera o falsa) posto da Hilbert. In altri termini Gödel dimostrò che all’interno di un sistema formale alcune proposizioni non potevano essere decise come vere o come false creando in questo modo i presupposti perché l’ipotizzata superiorità della scienza matematica rispetto ad altre espressioni culturali si dissolvesse. Si apriva di conseguenza la via alla interpretazione che fa consistere la superiorità della scienza nella sua efficacia.

Al giorno d’oggi, ad esempio, molti fisici non sono preoccupati di cercare una sistemazione teorica alla meccanica quantistica. Per la maggior parte di essi ciò che è importante è il fatto che funzioni indipendentemente dalla spiegazione che se ne può dare. Il limite della scienza oggi è quello della deriva progressiva nella tecnologia. Da questa, la scienza deve sottrarsi perché, come dicevano Karl Popper e Ludovico Geymonat, l’idea di superiorità della scienza rispetto ad altre manifestazioni del sapere sta proprio nel continuo processo critico a cui sottoporre le teorie che man mano elabora. Al contrario, se la scienza si ripiega sulla tecnologia tende a sottrarsi ad ogni tipo di valutazione sia etica che filosofica. La deriva tecnologica della scienza contiene in sé un germe pericolosissimo. E il germe sta in questo nel considerare ogni cosa che sia tecnicamente fattibile e realizzabile, lecita per il solo fatto di essere fattibile e realizzabile. Ma la scienza non ha uno sguardo innocente. La scienza non è pura. La scienza è già animata da un'intenzione tecnica: guarda il mondo per modificarlo. "Scientia est potentia", diceva Bacone.

Al tempo della sua nascita, nell'antica Grecia, la tecnica era molto più debole di quella che i greci chiamavano la necessità che vincola la natura. Oggi i rapporti sono rovesciati. La scienza da strumento utilizzato dall'uomo per raggiungere degli scopi è diventata essa stessa il primo scopo. E, nella sua ascesa, ha messo in crisi quei valori etici che sono stati stabiliti tra gli uomini al tempo in cui non c'era il problema di salvaguardare gli enti di natura (l'acqua, l'aria) mentre è proprio lì che la scienza morde.

E' possibile allora che l'etica possa porre un freno nei confronti della tecnica? Forse non c'è speranza. L'etica oggi è debole, non può che implorare e non può certo impedire a chi può, di fare ciò che vuole. Innanzitutto è errato credere che l'etica come del resto la politica siano enti immutabili perché anch'esse nascono, crescono e muoiono come gli enti di natura. Come la politica oggi non è più il luogo della decisione ma amministra delle scelte che avvengono nel mondo dell'economia (la quale a sua volta guarda alle risorse tecniche) così anche l'etica di cui Nietzsche da oltre un secolo, nella “Genealogia della morale”, aveva profetizzato la caducità, è alle corde. Pertanto non è una operazione di stampo nihilistico tentare di smontare delle norme di comportamento che non funzionano più. Volendo analizzare a fondo quanto accade oggi nei rapporti tra etica e tecnica viene alla luce una evidenza: che la tecnica non ci richiede più nessuna etica perché è più forte dell'etica. La tecnica è più dura e severa dell'etica. In un mondo organizzato tecnicamente non è possibile sbagliare perché l'errore pone il suo autore fuori dal sistema. Il soggetto che compie un'azione non diviene, sulla base di questa, buono o cattivo, meritevole o colpevole ma è definito capace o incapace, adatto o inadatto. Il bene e il male diventano capacità e incapacità, non giudizi di valore. Il soggetto vale fintantoché si identifica con il ruolo che gli è stato assegnato dall'apparato tecnico al quale interessano efficienza e funzionalità ma non è altro che un ingranaggio in un apparato di cui non controlla i fini. In questo ulteriore aspetto in cui si manifesta l'organizzazione degli apparati tecnici va individuata "la tomba dell'etica". Quando le finalità delle azioni che compiamo ci sfuggono, Platone direbbe che non ci troviamo più "nell'agire" ma nel puro e semplice "fare".

L'epoca moderna si è formata attorno al valore della libertà della ricerca scientifica. Ma lo sviluppo della scienza ha sollevato ricorrenti critiche e ansie profonde per il suo carattere disumanizzante. Questo secolo ha visto il contrapporsi radicale della fede nel progresso scientifico e l'orrore verso alcune vie che esso ha intrapreso, come, in un recente passato, la costruzione di armi nucleari e chimiche, e, in questi anni, la possibilità di modificare la struttura della vita umana con interventi genici. Si è sostenuto che sono gli usi della scienza che possono essere distorti. Tuttavia, soprattutto nei campi di frontiera della ricerca biomedica, è la pratica scientifica stessa a essere messa in discussione. La modificazione della struttura biologica, con la creazione di nuove forme di vita, è una questione moralmente delicata. Si riconoscono prospettive vantaggiose, come il miglioramento dell'agricoltura e la cura di malattie genetiche, ma si intravede anche la responsabilità di creare forme di vita dannose per l'uomo, come batteri e virus aggressivi e resistenti gli antibiotici, e di mettere a disposizione queste tecniche a un numero sempre maggiore e incontrollato di persone. Inoltre, la conoscenza stessa del patrimonio genetico umano può sconvolgere radicalmente il modo comune di pensare degli individui. L'identificazione di una malattia genetica, attualmente incurabile, e che potrebbe svilupparsi solo più tardi, equivale in qualche modo a conoscere anticipatamente la propria morte. Come far fronte a queste conoscenze? Sono informazioni delicatissime, che attengono alla privacy della persona e la cui divulgazione sarebbe disastrosa. Viene messa in dubbio qui la conoscenza come uno dei valori fondamentali dello spirito umano.

Questa questione diventa esplosiva alla luce dell’irrompere delle biotecnologie nella vita di milioni di persone con la conseguente trasformazione della salute in merce. Le prospettive offerte dalle biotecnologie, infatti, rischiano di incoraggiare l'apartheid già in atto nelle possibilità di accesso alle cure sanitarie. La manipolazione del vivente, in particolare la possibilità tecnica di clonazione umana, e i cambiamenti indotti dalle tecnologie dell'informazione, rappresentano una sfida all’Umanesimo mettendo in dubbio l'avvenire stesso della specie. Soltanto tenendone conto, ma anche ritrovando una saggezza spirituale e politica, sarà possibile fondare un nuovo umanesimo. Senza di che, grande è il rischio che le tesi sulla "post-umanità" possano condurre alla strumentalizzazione e alla mercantilizzazione generalizzata degli individui.