GIULIO TARRO

Eutanasia ed accanimento terapeutico

 

INCONTRO DI BIOETICA , 20 OTTOBRE 1998

San Romano Salone Mediceo Convento Francescano

 

Il concetto di “buona morte”

In questi ultimi anni non pochi studiosi, hanno evidenziato come in un'epoca in cui l'idea dominante è quella di prolungare la giovinezza e la vita in una condizione di piacere e di benessere, la malattia, la vecchiaia, ma soprattutto il dolore e la morte siano fonte di orrore perché appaiono come esperienze cariche di significati esclusivamente deprivanti e negativi. Esiste quindi antropologicamente e culturalmente nella nostra epoca, un'incapacità ad accettare il limite biologico ed esistenziale della vita umana, che rende particolarmente difficile il compito di rendere il  più possibile sereno la parte finale dell'esistenza. In questo senso deve essere inquadrato il dibattito che si sta sviluppando tra medici e filosofi sulla questione dell’eutanasia e che sta dividendo in due “schieramenti” opposti l’opinione pubblica. .

Secondo un’indagine demoscopica effettuata nel 1998, infatti esisterebbe nei riguardi di una legislazione che contemplerebbe l’eutanasia un 37% di soggetti contrari, un 26% di favorevoli e un 37% di incerti (probabilmente in fase di riflessione), che potrebbe modificare profondamente l'esito della eventuale consultazione popolare che si prospetta a breve scadenza su questo delicato problema. E' interessante notare che anche fra gli intervistati che si dichiarano cattolici vi è una discreta percentuale (15%) favorevole all'eutanasia e, in effetti, il concetto di qualità della vita, ormai prevalente nella cultura postmoderna, rende assai problematico attribuire un senso alla sofferenza e al dolore al di fuori di una prospettiva di guarigione.

In una prospettiva antropologica il modello di rappresentazione della morte nella nostra società si oppone radicalmente a qualsiasi modello precedente. Nelle culture precapitalistiche la presenza della morte occupa un posto centrale. Nella cultura contadina, come nelle culture non occidentali, la vita e la morte sono percepite, anzi, come forme diverse di una stessa condizione umana. I due termini si compenetrano nella realtà, come nei simboli. Già da bambini si è in qualche modo educati all'idea della morte: la morte ha i suoi luoghi, i suoi segni, le sue cerimonie. In questo tipo di società la "buona morte" è la morte considerata "naturale": da anziani, nel proprio letto, circondati da parenti, dopo aver "messo ordine" in tutte le proprie cose terrene. Nella cultura precapitalistica la morte, quando è “buona morte” non fa paura; quel che si teme è piuttosto la “mala morte”, da sempre imputata a cause innaturali, a volontà esterne, che alterano il giusto andamento delle cose, il tempo e il luogo giusto per morire.

La storia della rappresentazione della morte nella società occidentale industriale è, invece, la progressiva elaborazione ed rafforzamento del modello opposto. Senza scendere in particolari, è la storia della progressiva riduzione degli spazi di presenza della morte. La nostra società vive fra le tante questa contraddizione: è certo il tipo di società che più produce morte "innaturale", per velocità, per gioia effimera, per violenza, ma è, al tempo stesso, la società che più rifiuta l'idea della morte, che più ne è terrorizzata ed ossessionata. L'ideale produttivistico dominante è vivere come se la morte non dovesse mai giungere. E' interessante, ad esempio, notare come in Francia tra il 1955 ed il 1975 l'uso di fare testamento sia diminuito del 200% circa. Questa separazione netta della vita dalla morte e questa negazione della morte, accompagnano tutta la vicenda dello sviluppo della società industriale. La morte è progressivamente confinata e rimossa sia a livello individuale, che a livello sociale. A livello individuale diversi studi di psicoanalisi hanno largamente dimostrato quanto siano oggi raffinati e moltiplicati i meccanismi di rimozione dell'idea della nostra stessa morte.

I due modelli culturali di rappresentazione della morte sembrano per certi versi opposti. La buona morte, la morte che i più oggi vorrebbero, è probabilmente proprio la "mala morte" delle società che hanno preceduto la nostra: una morte improvvisa, imprevista, per la quale non può esistere nè un luogo, né un tempo adatti. E' in questo contesto culturale del rifiuto dell'idea di morte che si pone il problema dell'eutanasia ed in effetti solo in questo contesto il problema poteva dispiegarsi completamente. Per meglio dire, l'attualità del problema dell'eutanasia ci sembra prodotto dall'incontro di due fattori: da un lato dall'estensione della cultura produttivistica, dall'altro dai progressi della medicina in questi ultimi anni.

Questi due fattori possono ed anzi spesso entrano in contrasto tra loro. Lo stesso prolungamento della vita umana, l'aumento percentuale della popolazione anziana, è la forma più tenue di questo contrasto; la possibilità di prolungare anche per lunghi, dispendiosi periodi, la fase terminale della malattia mortale, ne è la forma più estrema. Da un punto di vista produttivo in ambedue i casi si tratta di una dispersione di energie. Non vogliamo certo schiacciare sul piano economico-produttivo le ragioni dei sostenitori dell'eutanasia. Come abbiamo visto, queste ragioni sono molto più complesse ed articolate; vogliamo solo sottolineare come questo sia uno dei casi nei quali lo sviluppo della scienza sarà costretto a fare i conti con l'ambiente di valori che più o meno direttamente lo ha prodotto.  E' facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale; questi potrà allora costituire davvero un problema economico, molto più di quanto oggi non sia. Allora si tratterà di fare una scelta e sarà principalmente una scelta di valori.

Ci si può augurare che questi valori in ogni caso salvaguardino la dignità e la stessa libertà dell'uomo. Le scelte che si faranno saranno, infatti, espressione dei diversi possibili modi di intendere il potere: quello del medico nei confronti del malato, come quello della società nei confronti dell'individuo e dell'uomo politico nei confronti del cittadino.

 

Le ragioni degli uni e degli altri

Sotto certi aspetti, sul problema dell'eutanasia passiva, le opinioni sono meno distanti di quanto possa apparire: si concorda nel rifiutare il cosiddetto "accanimento terapeutico", nel rifiutare, cioè, l'artificiale mantenimento in vita del malato decerebrato irreversibilmente; si concorda nell'opinione, che già fu di Pio XII, sulla legittimità di somministrare al malato all'avvicinarsi della morte farmaci narcotizzanti, anche se si può prevedere che l'uso di tali farmaci abbrevi la vita.

Le opinioni diventano, invece, sempre più divergenti quando si discute sull'opportunità di regolamentare per legge questa forma, anche, ristretta, di eutanasia passiva; sulla prospettiva di estendere la sua ammissibilità, seppure per comprensibili motivi di pietà verso il malato terminale; sull'eutanasia attiva. Ma riportiamo sinteticamente i motivi pro e contro la regolamentazione per legge dell'eutanasia passiva, così come sono emersi dai più rappresentativi interventi del dibattito in corso. Ricordiamo che per “eutanasia passiva”, od “omissiva”, si intende la soppressione dell'ammalato, o la accelerazione della morte dell'ammalato, ormai ritenuta inevitabile ed imminente (fase terminale), in base alle indicazioni di una vasta casistica, attraverso l'omissione, o l'interruzione di interventi terapeutici atti al prolungamento della vita. “Eutanasia attiva” implica, invece, un atto consapevolmente teso ad abbreviare o mettere fine alla vita del malato destinato a morire, o che si trovi in particolari condizioni di sofferenza fisica.

I principali argomenti a favore di una disciplina per legge dell'eutanasia passiva sono:

§ L'eutanasia passiva è una pratica pietosa ormai diffusa; una sua regolamentazione la sottrarrebbe all'arbitrio del medico, o dei parenti del malato.

§ La regolamentazione dell'eutanasia passiva libererebbe il medico dall'illegalità di un atto più diffuso, per ammissione degli stessi medici, di quanto si possa pensare.

§ Una chiara normativa sull'eutanasia permetterebbe alla magistratura di operare su basi giuridiche più sicure ed omogenee.

§ Ognuno ha il diritto di decidere sulla propria morte e di morire con dignità.

§ Il costo dei malati terminali incide pesantemente sulla struttura sanitaria, sottraendo risorse che potrebbero essere destinate a malati curabili.

§ La possibilità di "controllare" la morte dei malati terminali permetterebbe di aumentare la disponibilità di organi per i trapianti.

I principali argomenti contro la disciplina per legge dell'eutanasia passiva sono:

§ Una legalizzazione dell'eutanasia passiva produrrebbe in breve un'epidemia della "buona morte", di cui sarebbe impossibile controllare l'estensione.

§ La struttura sanitaria, già di per sè carente, si sentirebbe sollevata dall'impegno di prolungare al massimo la vita del malato, con il rischio di un assenteismo terapeutico di massa.

§ Se si tratta di interrompere il prolungamento artificiale della vita in condizioni di estrema sofferenza non c'è bisogno di una legge: questa è pratica medica diffusa ed ammessa dalla morale. Una legislazione dell'eutanasia passiva nasconde in realtà il tentativo, o per lo meno il rischio, di un'estensione di questa pratica fino ed oltre i confini con l'eutanasia attiva.

§ Chi può decidere sull'opportunità di "eutanasiare" il malato? Se è lo stesso malato a decidere con la necessaria lucidità mentale non si tratta evidentemente di un caso di applicabilità dell'eutanasia, ma di "suicidio". Se la decisione spetta ai parenti, come garantirsi che questa decisione non nasconda interessi di altro tipo? Se deve essere il medico a decidere, come evitare errori, comportamenti diversi ed, anche in questo caso, interessi diversi da quelli del malato?

§ E' provato che la sperimentazione terapeutica e gli sforzi compiuti per dar soccorso ai malati marginali hanno permesso molte volte di far avanzare la ricerca scientifica.

§ Le nuove terapie di rianimazione e in genere gli sviluppi, anche in tempi brevi, delle terapie della farmacologia, rendono quando mai difficoltosa la definizione di malato terminale.

Abbiamo appositamente lasciato fuori da questa rassegna di motivazioni pro e contro gli argomenti di tipo morale e religioso. Su questo piano le due diverse posizioni potrebbero così riassumersi: per un verso, la sacralità della vita umana impegna al suo rispetto totale anche nei suoi momenti terminali e più difficili; per altro verso, è diritto dell'uomo morire con "dignità", non offrire lo spettacolo del suo disfarsi morale e fisico. In realtà, come abbiamo detto, la linea di demarcazione non divide nettamente il mondo cattolico e quello laico: il mondo laico è ulteriormente diviso e dubbioso al suo interno e anche fra i cattolici si possono trovare posizioni più o meno sfumate.

Il motivo morale dei due campi di opinione è in fondo il medesimo: salvaguardare la dignità della vita umana. Né, per altro verso, si mette in discussione la legittimità dei diversi fondamenti antropologici di questa "dignità". Quel che il mondo cattolico contesta all'opinione laica è piuttosto la tendenza a scivolare da una visione laica ad una visione produttivistica della vita e dell'uomo. Da parte sua il mondo laico vede nelle posizioni del mondo cattolico, il pericolo di passare dalla difesa della vita ad una esaltazione del dolore in sè, come estrema testimonianza.

 

Il ruolo del medico tra legge ed  etica

La questione sulla liceità dell’eutanasia sta investendo pesantemente il mondo medico come dimostrato da quanto sta accadendo oltreoceano. Verso la fine del corrente anno, infatti,  la Corte Suprema degli Stati Uniti dovrà decidere sulla legittimità costituzionale di due leggi, degli Stati di Wastington e di New York, che proibiscono ai medici di mettere in condizione pazienti terminali di commettere un suicidio. In caso di decisione favorevole la norma si estenderà a 12 Stati comprendenti più della metà della popolazione degli Stati Uniti ed è probabile che il meccanismo si estenderà all'intero Paese. Ne consegue che i medici non potranno più venir incriminati come il famoso Dottor Morte (Jack Kevorkian), che dal 1990 ha praticato 44 suicidi assistiti venendo assolto ben tre volte da giurie di Stati "proibizionisti" (solo l'Oregon ha una legislazione permissiva che è, tuttavia, sotto giudizio di appello). I rappresentanti ufficiali di classe medica sono contrari, ma la maggioranza dei medici o almeno più della metà è favorevole insieme ai tre quarti della popolazione. I sostenitori della legalizzazione presentano diversi argomenti fra i quali: La priorità delle scelte autonome da parte del malato, priorità che ha dato luogo alla introduzione del consenso informato. Una percentuale di decessi avviene con sofferenze notevoli: se oggi le terapie antidolore hanno fatto molti progressi, vi sono altri sintomi come il vomito, la dispnea e la estrema debolezza contro i quali non si possiedono armi adeguate. Per non parlare della incontinenza e di altre manifestazioni che offendono la dignità del morente. Esistono poi differenze fra l'interruzione di trattamenti rianimatori intensivi per espresso desiderio del paziente in quanto il ruolo del medico è passivo limitandosi a lasciare che la malattia faccia il suo corso e la "attività" del sanitario che, sia pure con il consenso dell'interessato o di un familiare, determina direttamente la morte o fornisce al paziente/familiari i mezzi e le istruzioni per farlo.

 Ma i sostenitori del suicidio assistito contestano questa differenziazione sostanzialmente centrata solo sul ruolo del medico. Al contrario, mentre nel suicidio assistito il paziente è attivo e cosciente, quando si interrompono i meccanismi che lo mantengono in vita quasi sempre è comunque passivo. Inoltre non possono mancare abusi, sopraffazioni da parte di familiari interessati all'eredità. Un ultimo aspetto. Può, in effetti determinarsi un fattore: la "grave depressione" del paziente, che il medico potrebbe curare invece di aiutare nell'intento suicida; ma sono le condizioni cliniche generali che dovrebbero consentire una differenziazione.

Naturalmente nell'affermazione della legittimità del suicidio assistito non potrebbe mai seguire una sorta di obbligo morale per il medico, essendo ovvia l'obiezione di coscienza per chi comunque ritenga essenziale il principio dell'arte sanitaria di portare la vita e non la morte. Piuttosto, il dibattito ha richiamato l'attenzione sulle carenze dell'assistenza terminale e sulle barriere di natura socio-culturale ed economica che escludono molti pazienti dal poter usufruire delle terapie palliative.

 A partire dagli anni Sessanta il dibattito sull'eutanasia si è sviluppato con intensità crescente, prima negli USA ed in seguito in Europa, in Svizzera, in Francia, in Olanda, in Italia. Il tema emerge con forza negli Stati Uniti nei primi anni Settanta, quando quaranta personalità della cultura e della scienza, fra cui diversi premi Nobel, firmano un Manifesto a favore dell'eutanasia. Nel 1977 sono già otto gli Stati dell'Unione che hanno legiferato in questo senso e nello stesso anno il Cantone di Zurigo approva, con referendum favorevole, l'eutanasia. Nel marzo del 1986 l'Associazione Medica Americana (AMA) dichiara umanamente e giuridicamente lecita la pratica dell'eutanasia passiva, proponendo di quest'ultima un'accezione estensiva e mettendo così per la prima volta formalmente in discussione il principio cardine del tradizionale codice deontologico del medico.

Il caso svizzero costituisce, tuttavia, un'eccezione in Europa. In Francia, Spagna, Belgio, Irlanda, Lussemburgo, l'eutanasia passiva equivale ad un omicidio. In Austria, in Grecia, nei paesi Scandinavi, in Germania Federale, l'"omicidio consenziente" viene giudicato come un caso a parte, ma, tuttavia, punibile. Nella stessa Olanda, dove il movimento di idee favorevole all'eutanasia passiva è più forte, il progetto di legge che prevede la depenalizzazione dell'eutanasia ha provocato l'opposizione del Consiglio di Stato. Proprio nel Gennaio di quest'anno i rappresentanti dell'Ordine dei Medici dei Paesi comunitari hanno elaborato la contestatissima “Guida europea di etica medica”, secondo cui “in nessun caso il medico, anche quando ciò fosse richiesto dal paziente, o dai suoi familiari, deve attuare mezzi atti ad abbreviare la vita del malato”.

Come già detto un caso a sé nella situazione europea è dato dall’Olanda dove eutanasia e suicidio assistito ricadono sotto il Codice Penale per cui i relativi decessi vanno notificati alla Procura come “morti non naturali”, ma il medico non viene perseguito se può dimostrare di aver agito secondo i principi della pratica “prudente”. Prima degli anni '80 i casi notificati si contavano sulla punta delle dita; nel 1993 sono stati ben 1318. Elaborando i dati provenienti dalle province del nord (2,3 milioni di abitanti) nel periodo 1984-93 sulla base delle ordinanze del Pubblico Ministero con la relativa documentazione (dichiarazione del curante, referto del medico legale, e spesso un secondo parere clinico nonché il testamento dell'interessato), è risultato che la maggioranza dei 1707 casi notificati erano provenienti da medici di medicina generale (74%) con un 26% da specialisti. La maggioranza dei pazienti era di sesso maschile (57%) e la età media 62 anni per gli uomini e 65 per le donne. Il cancro nelle sue varie forme costituiva la causa prima, seguito dall'AIDS (rispettivamente, 78% e 9%); in quest'ultimo gruppo di malati la percentuale di casi di eutanasia era la più elevata rispetto al totale dei decessi con la stessa diagnosi (13,4%), seguita dalla sclerosi multipla (5,30%) e sclerosi laterale amiotrofica (4,08%). Sul totale dei morti per tumore più bassa è stata la quota di coloro che hanno chiesto il suicidio assistito (2,026%). Naturalmente tutti questi dati si riferiscono ai casi che vengono denunciati e probabilmente rappresentano una sottostima; all'aumento delle notificazioni nel tempo ha concorso sia l'incremento delle richieste da parte dei pazienti e dei familiari sia la maggiore tendenza alla rivelazione dell'atto eutanasico da parte dei medici. Appaiono comunque interessanti i dai relativi alle cause che hanno portato alla richiesta, ed è fuor di dubbio che l'ineluttabilità del decorso progressivo dell'AIDS, la cronicità e progressività dei quadri clinici delle neuropatie succitate possono giustificare l'atteggiamento dei medici.

 

La situazione in Italia

In Italia al centro del dibattito vi è una proposta di legge che si riallaccia a quella presentata dall'On. Loris Fortuna nel lontano 1984 e che ha costituito elemento cardine di discussione nei Convegni di Rieti (gennaio 1996), di Pontremoli-Firenze (dic.1996) e nel recentissimo convegno “Dignità del morire” tenutosi a Venezia dal 30 settembre al 2 ottobre 1998. In questa fase del dibattito sembra prematuro definire gli orientamenti favorevoli o contrari alla regolamentazione per legge dell'eutanasia passiva: nettamente contrario, tuttavia, il mondo cattolico, ma anche esponenti della cultura laica o Associazioni mediche (come l'Associazione ligure degli Anestesisti); favorevoli numerosi parlamentari, ma anche rappresentanti delle Chiese Protestanti e medici di ispirazione cattolica.

La proposta di legge prevede, all'art. 1 che "i medici sono dispensati dal sottoporre a terapie di sostenta-mento vitale qualsiasi persona che versi in condizioni terminali, salvo che la stessa vi abbia comunque personalmente e consapevolmente consentito". Gli altri sette articoli della proposta si soffermano, poi, sui modi per accertare le condizioni terminali del paziente, sulle disposizioni scritte del medico per l'interruzione della terapia e su chi è legittimato ad opporsi alla decisione.

Si comprende facilmente quanto sarebbero ampi gli spazi per praticare l'eutanasia che l'approvazione della proposta dischiuderebbe anche nel nostro Paese. Il problema così riacquista attualità e divide profondamente i partecipanti al dibattito. Dopo l'approvazione a Parigi della nuova "Guida europea di etica medica", c'è da supporre che altre proposte si aggiungeranno, riproponendo in sede parlamentare modifiche incisive del nostro codice penale e di tutta la nostra legislazione sanitaria.

Come è noto, il nostro ordinamento punisce sia l'omicidio del consenziente sia l'istigazione, o l'aiuto al suicidio. Il diritto alla salute viene, poi, visto come interesse del cittadino nel contesto sociale ed in contrapposizione all'interesse di questo. L'articolazione della protezione è quindi ampia. Tutta la legislazione sanitaria contiene, infatti, norme di carattere penale e civile e inquadra il diritto alla salute in uno scenario sempre più ampio rispetto a quello iniziale di diritto all'integrità fisica. Oltre ai doveri imposti dalle norme dell'ordinamento giuridico, i medici sono tenuti a rispettare i Codici di deontologia e le prescrizioni dell'etica professionale imposti dalla tradizione. Secondo alcuni studiosi, esiste, del resto, una colpa del medico che trascuri di aggiornarsi e di seguire il progresso scientifico, se da tale comportamento derivano danni ai pazienti per grave incuria ed ignoranza delle norme tecniche. E, secondo la dottrina, la diagnosi data dal medico determina responsabilità dello stesso se sia causa di una cura sbagliata, o di un'omissione di cure che danneggi la salute del paziente. La giurisprudenza, a dire il vero, appare, però, varia e contrastante nel valutare in concreto la responsabilità del medico citato in giudizio.

A questi orientamenti protettivi del paziente, rilevabili nella nostra legislazione sanitaria, vanno aggiunte talune scelte fondamentali della nostra Costituzione. Da essa si può infatti evincere che la legge in nessun caso può violare i limiti imposti dal rispetto della persona; una prescrizione questa che acquista un rilevante valore quando il precario stato di salute del paziente rende il soggetto particolarmente debole e meritevole di più attenta protezione.

Anche se mancano articolati ed approfonditi esami delle decisioni della Corte Costituzionale in materia - e in particolare sull'interpretazione da essa data all'art. 32 - si ammette, per lo più, la possibilità di rendere obbligatori i trattamenti sanitari. Tale obbligatorietà va intesa nel senso che i trattamenti sanitari possono anche escludere il consenso del singolo per talune pratiche sanitarie, sempre però che l'intervento sia veramente necessario per la tutela generale della salute della collettività.
Sia lo spirito della nostra Carta fondamentale, sia l'opportunità reale e concreta della difesa dell'interesse collettivo portano ad escludere che nel caso dell'eutanasia possano invocarsi esigenze di carattere generale a suo favore, a meno che non si voglia valutare il problema in termini di costi economici, di carenze delle strutture sanitarie, di inutilità degli sforzi; in un quadro, cioè, che trascuri valori importanti di una concezione della vita di profondo ed ampio significato umano.

Una cosa, tuttavia, è discutere del problema dell'eutanasia, o di situazioni che presentano analogia con questa, in termini di stretta giuridicità, sul piano dei valori morali, o delle responsabilità civili e penali in cui si può incorrere, una cosa, apparentemente uguale e conseguenziale, ma sostanzialmente diversa, è valutarlo ed in tempi brevi quando tale problema si presenta nel momento operativo, con un paziente, cioè, che si trova nello stadio terminale e per il quale va deciso il tipo di assistenza da prestare. In termini concreti, infatti, non è uguale comportamento permettere che al malato vengano sospese le terapie quando le stesse non appaiono più efficaci e consentire invece di sottrarre, al paziente che soffre troppo, o si ipotizza già allo stadio terminale, cure che si possono in alcuni casi dimostrare utili. Nel primo esempio non si pregiudica la vita (si pensi a un malato terminale con un organismo devastato da un tumore) ed il problema merita piuttosto maggiore attenzione sul piano dell'affinamento della terapia del dolore; nel secondo caso di irreversibilità della malattia si può parlare solo a posteriori. Occorre certo, anche nell'ultimo caso, stabilire in concreto se rinunziando all'inutile accanimento terapeutico si possa configurare sul piano giuridico e su quello morale una scelta a favore dell'eutanasia, o la pratica attuazione della stessa.

Non può essere indifferente per il diritto se qualcuno opera in modo da anticipare la morte altrui, interrompendo così una vita, una esistenza che, sia sul piano giuridico sia sul piano morale, non é ammissibile che sia troncata finché esiste. Staccare il tubo, girare, o far girare la chiavetta del respiratore artificiale, prescrivere certi medicinali invece di altri significa far qualcosa di più che tenere un comportamento passivo. Anche quando però ci troviamo di fronte ad un volontario rifiuto di assicurare le terapie necessarie alla sopravvivenza per affrettare la morte, il confine fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva diventa spesso incerto e discutibile, sicuramente illecito alla luce della nostra attuale normativa.

Se il legislatore ordinario si trova spesso ad inseguire con fatica il progresso della scienza medica e non solo quello, se appaiono inadeguate le norme in materia di fecondazione artificiale, o di ingegneria genetica, se tutti questi vuoti legislativi penalizzano indiscriminatamente soggetti meritevoli di maggiore protezione, se la Guida medica europea scatena una tempesta sull'eutanasia, fa sorgere molte perplessità e non elimina del tutto i dubbi, tutto questo sta a dimostrare sempre più che pazienti e medici non possono venire lasciati soli quando debbono decidere sulla vita propria ed altrui, ma vanno confortati e guidati da chiare norme regolanti materie che rappresentano sicuramente una riserva della legge. Il diritto positivo deve affiancarsi quindi a quella legge morale che chiamiamo diritto naturale, per meglio chiarire il significato della vita e l'importanza della sua conservazione e protezione. La legge può però entrare dettagliatamente nel mondo della medicina, senza creare scompiglio e malessere? Può sostituirsi all'etica tradizionale del medico senza sconvolgere i suoi canoni di comportamento? Può inseguire in astratto il concreto ed incessante sviluppo della medicina per delimitare il confine fra il lecito e l'illecito? Può assicurare un quadro legislativo affidabile agli utenti del servizio sanitario? Il nostro legislatore non è certo preparato ad uno sforzo di tale ampiezza e complessità e non ha forse nemmeno le idee molto chiare sugli obiettivi a cui puntare.

Pure farebbe bene a ribadire con fermezza alcuni principi fondamentali del giusnaturalismo, come quello dell'importanza della tutela della vita e farebbe meglio a rimboccarsi le maniche per eliminare i ritardi legislativi finora accumulati in questo come in molti altri campi del suo operare.
Quali ostacoli potrebbe incontrare nel momento tecnico delle scelte normative? Quali conflitti di competenza potrebbero sorgere con altri organi costituzionali? Esiste intanto il dubbio se l'art. 117 della Costituzione, che fa rientrare la competenza delle regioni anche nel campo dell'assistenza sanitaria ed ospedaliera, intenda affiancare per queste materie alla riserva di legge statale una, sia pur più limitata, riserva di legge regionale. Molti studiosi ritengono che la materia possa essere regolata solo con legge dello Stato, intendendosi a loro parere lo spazio regionale circoscritto ad interventi sull'apparato organizzativo-burocratico e programmatico del settore sanitario. Tuttavia, anche superando questo ostacolo, le difficoltà restano e sono tante.

Disciplinare con legge persino l'uso delle terapie oltre che anacronistico non appare opportuno, sia perché si tratta di settori dove l'innovazione è notevole, sia perchè i singoli casi si presentano con caratteristiche particolari e diventerebbe pertanto difficile inquadrarli nella griglia della legge, sia perchè questo da solo non servirebbe per favorire il radicarsi di una cultura omogenea sull'uso delle terapie, cultura che, a detta di molti, è più necessaria della stessa legge.

Se è pertanto da sconsigliare la disciplina particolareggiata del problema con provvedimenti di legge formale, è invece da incoraggiare il nascere e il rafforzarsi di una regolamentazione specifica che affronti le situazioni concrete che si possano verificare e sia di orientamento per il personale sanitario tutto e di trasparenza e di controllo interno ed esterno sul funzionamento delle strutture e sul comportamento degli operatori. Ne guadagnerebbero la qualità del servizio e l'intensità dell'uso delle apparecchiature. Una tale normativa potrebbe articolarsi in un regolamento governativo organico ed avanzato, che vada ad inquadrare l'intera tematica e sia poi di ausilio ai più specifici e particolareggiati regolamenti delle regioni e delle autorità sanitarie locali.

Se a questi fermenti normativi, tutti ancora da pungolare e definire, si aggiungessero scelte concrete di più attenti criteri di gestione economica delle strutture sanitarie e delle risorse umane e maggiore sensibilità del personale medico e paramedico, si potrebbe avere una piccola rivoluzione sanitaria silenziosa, ma incisiva; una rivoluzione che potrebbe in termini diversi dagli attuali, anche sul piano dei costi economici, prevedere le esigenze di quanti si trovano nello stato terminale della vita.

 

Vincere il dolore

Un aspetto che spesso non viene tenuto nella sua giusta considerazione nel dibattito pro o contro l’eutanasia è data dallo stato nel nostro paese delle terapie antidolore o palliative delle quali posono giovarsi i malati terminali di cancro. Da questo punto di vista la situazione in Italia è certamente insoddisfacente e troppo pochi sono gli analgesici stupefacenti in circolazione nel nostro Paese e troppi gli ostacoli al loro impiego grazie a una legge capestro (numero 686/75) concepita per paura dell’abuso; vuoto pressoché totale anche per quanto riguarda strutture sul tipo degli “Hospices” inglesi o delle “Pain Clinics” americane dove il malato terminale  può giovarsi, se non altro, di terapie antidolorifiche.

Tra l’altro va detto che la nostra medicina è carente quasi totalmente davanti a questo problema. Oggi malgrado gli enormi progressi scientifici esistono limiti nei quali l'intento di guarire rimane impossibile e ogni ulteriore sforzo non porta ad altro che al prolungamento del morire e del soffrire. Questo succede soprattutto di fronte ad alcune malattie nella loro fase avanzata, come il cancro, l'Aids, certe situazioni terminali di malattie neurologiche respiratorie e cardiache e nell'ambito geriatrico.  Numerosi studi recenti effettuati sia in America che in Europa hanno rilevato come anche nelle più moderne e sofisticate istituzioni ospedaliere un'alta percentuale di malati viene a terminare la vita tra sofferenze e dolori. Oggi infatti viene riportato che malgrado l'esistenza di nutrite schiere di esperti di congressi, seminari, il controllo del dolore non viene preso in considerazione sia negli ospedali che nelle abitazioni.

La dignità della persona umana finisce quindi per essere calpestata da una mancanza di contatto, comunicazione, dall'ambiente inadatto in cui il malato viene a morire e dal fatto che molto spesso queste persone vengono a subire cure inutili, costose, portatrici di ulteriore sofferenza. Questo quadro della realtà odierna che esiste anche da noi in Italia è dovuto a una carenza di educazione da parte degli operatori sanitari verso la morte ed il morire. Mentre nelle nostre scuole di medicina e in quelle infermieristiche nulla viene insegnato sulla fase del morire. Questa fase può durare giorni, mesi o anche più di un anno.

Di fronte a questa situazione la cultura medica rimane legata a trattamenti aggressivi verso il malato terminale per il fatto che la morte rappresenta sconfitta della medicina e per ciò si tende a non prendere in considerazione gli aspetti psico-sociali della malattia. Tutto ciò impedisce il sorgere di quelle attitudini che formano le basi di un'attenzione professionale e compassionevole verso il morente. È necessario un insegnamento sulla vita del morente localizzato al controllo delle percezioni di sofferenza, cioè del dolore, quasi sempre presente e degli altri penosi sintomi. Questo controllo deve essere offerto con un approccio umano verso il malato e la famiglia. È necessario un insegnamento sulle modalità di comunicazione di ascolto in questi frangenti non solo con i malati, ma anche con quelli che gli stanno vicino, e permettetemi di dirlo, è necessario un approccio atto a rinforzare certi valori spirituali che noi esseri umani teniamo sopiti soprattutto in quei momenti.

Inoltre vanno insegnate le capacità di lavoro in équipe pariteticamente con l'infermiera e con la famiglia verso il malato sia in casa che in ospedale. Queste modalità di approccio verso il malato terminale vengono chiamate internazionalmente cure palliative. Palliativo è una parola non piacevole ma che serve a ricordare che non siamo, né saremo mai onnipotenti sulla nostra salute ma che possiamo sempre "palliare" cioè coprire e rendere più sopportabili le sofferenze fino all'ultimo istante di vita.

La stessa Organizzazione mondiale della Sanità pone fra le priorità nel suo rapporto sulla salute di quest'anno le Cure palliative e la sua educazione. Quest'educazione negli ultimi anni è diventata una disciplina che viene ufficialmente insegnata per formare i nuovi operatori già in alcuni Paesi del mondo sviluppato. In Inghilterra esistono ben sei cattedre altre esistono in Scandinavia, Nord America, Australia. Lo stesso esempio sta nascendo anche in Francia e in Belgio. In Italia la Fondazione Floriani, che da vent'anni opera nel settore dell'aiuto ai morenti, sia promuovendo assistenza che educazione, lo scorso maggio ha organizzato un Convegno per portare questo messaggio presso l'Università di Milano.

Iniziative similari dovrebbero moltiplicarsi nel nostro Paese in modo da rendere ufficiale la nascita di questo insegnamento. Solo insegnando a un giovane che diverrà medico o infermiere e che la medicina non è tesa solo a guarire, che la vita ultima va circondata dal miglior conforto, solo creando un'educazione capillare nella scuola e nella famiglia sul diritto ad avere un termine della vita senza sofferenze e senza emarginazione si potranno migliorare le attuali attitudini e negligenze che esistono verso i malati terminali nell'ambito sociale e sanitario nel nostro Paese.